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I segreti dei gatti: perchè è difficile capire quando hanno dolore? 

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A cura della Dr.ssa Elisa Silvia Colombo – Psicologa, Psicoterapeuta

La rivelazione avviene di solito durante una visita veterinaria.

In effetti avevi notato anche tu qualche comportamento insolito: una minore predisposizione al contatto, una sorta di fastidio durante le coccole, la tendenza a sporcare fuori dalla lettiera. Segnali che, lì per lì, potresti aver interpretato come reazioni a qualche tuo comportamento sgradito all’amico felino: qualche ora in più passata fuori casa, poche attenzioni da dedicargli ed ecco che il micio “fa l’offeso”, ti ignora e “fa i dispetti”. Gli passerà! 

Lasci trascorrere un po’ di tempo e, durante un controllo di routine, ne parli con il tuo medico veterinario: altro che “risentito”, il tuo gatto ha dolore! Come hai fatto a non accorgetene?

Non sei il solo a porti questa domanda, che ha dato il via a una serie di ricerche volte a comprendere il modo in cui i gatti manifestano il dolore e le emozioni in generale, quali emozioni siano in grado di provare e i fattori che influenzano il modo in cui le persone le interpretano o le riconoscono.

Non c’è dubbio sul fatto che riconoscere il dolore nel gatto sia molto difficile, al punto che, per riuscire a coglierne correttamente i segnali, anche gli esperti hanno bisogno di studiare e di fare un po’ di pratica. La comunicazione dei gatti è infatti complessa e basata su posture, odori e movimenti che spesso sfuggono alla nostra attenzione; come umani, infatti, siamo generalmente più focalizzati sulla mimica del volto, alla base dell’espressione delle nostre emozioni. Sebbene anche nei gatti esistano variazioni nella mimica facciale associate al dolore, tali manifestazioni sono molto sottili e poco evidenti rispetto alle nostre.

Questo dipende dalla natura dei nostri felini che, sebbene siano comunemente noti come abili cacciatori, possono essere a loro volta prede e, come tali, hanno un importante vantaggio nel riuscire a nascondere quei segnali che potrebbero tradire la propria vulnerabilità agli occhi di un predatore.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che, quando cerchiamo di decifrare il linguaggio dei nostri animali da compagnia, anche noi esseri umani mettiamo in campo alcune tendenze innate, spesso alla base di interpretazioni fuorvianti.

Per la nostra specie, la competenza fondamentale per poter comprendere gli altri, è detta “Teoria della Mente” (TOM): questa abilità permette di utilizzare la conoscenza che abbiamo di noi stessi per capire o predire il comportamento degli altri, partendo dall’idea che la loro mente funzioni come la nostra. Si tratta di un meccanismo sofisticato, che con la crescita evolve a tal punto da renderci in grado di metterci nei panni altrui e di assumerne il punto di vista, anche quando è diverso dal nostro. Nel corso dell’evoluzione, una simile competenza si è rivelata talmente efficace nell’agevolare le relazioni tra esseri umani, da essersi non solo conservata ma addirittura estesa alle interazioni con individui appartenenti a specie diverse dalla nostra: nella nostra vita da cacciatori-raccoglitori, supporre che anche gli altri animali avessero come noi pensieri, emozioni e intenzioni ci ha resi predatori più abili e prede più scaltre poiché ci ha permesso di prevedere il loro comportamento. È questa probabilmente l’origine della nostra tendenza ad “antropomorfizzare” gli animali, vale a dire ad attribuire loro caratteristiche umane, soprattutto quando cerchiamo di capirli e di entrare in relazione con loro.

Oggi, la maggior parte degli uomini ha smesso di dover fuggire da belve feroci pronte a fare di loro un lauto pasto e difficilmente si trova a dover cacciare per procurarsi il cibo; ciò non toglie che la nostra predisposizione innata all’antropomorfismo continui a esprimersi con gli animali che fanno parte del nostro ambiente di vita, primi fra tutti i nostri animali da compagnia.

A questo proposito, diversi studi hanno analizzato le convinzioni dei proprietari di gatti rispetto alla capacità di questi animali di provare emozioni e non sorprende osservare che le persone riconoscano che i gatti hanno stati emotivi e ne attribuiscano loro un ampio ventaglio: non solo le cosiddette “emozioni di base”, più semplici, quali gioia, rabbia, tristezza, paura e sorpresa, ma anche emozioni complesse e tipicamente umane quali la gelosia, l’invidia, la compassione, la vergogna e il senso di colpa.

La tendenza all’antropomorfismo è inoltre evidente nel confronto tra i risultati di ricerche condotte in Paesi Orientali (Cina e Giappone) e in Paesi Occidentali (Europa e Stati Uniti): i proprietari orientali ritengono più facilmente che i gatti provino compassione, mentre gli occidentali individuano più facilmente la gelosia nei felini, in un’evidente trasposizione dei valori tipici del collettivismo e dell’individualismo che caratterizzano le rispettive culture di appartenenza.

L’interpretazione delle emozioni è inoltre influenzata dalla qualità del legame tra le persone e i propri gatti. Uno studio olandese, che ha coinvolto 1800 proprietari di gatti, ha osservato quattro tipologie di relazione, che differiscono tra loro per il modo in cui la persona considera il proprio gatto: un membro della famiglia (52%), un figlio (27%), il migliore amico (6%) o un animale da compagnia (14%). I risultati dimostrano come chi ha un legame più forte con il proprio gatto, considerandolo come un figlio, tenda maggiormente ad attribuirgli emozioni complesse (es. gelosia e compassione), al contrario di chi considera il micio un animale da compagnia, che gli riconosce in misura minore anche la capacità di provare le emozioni più semplici.

Questi dati risultano particolarmente interessanti per comprendere le difficoltà delle persone a riconoscere il dolore nei propri gatti.

Innanzitutto è più facile accorgersi di cambiamenti evidenti nel comportamento del proprio amico felino, piuttosto che di sintomi specifici di dolore: reazioni aggressive o di evitamento del contatto fisico, tendenza a sporcare fuori dalla lettiera, isolamento. Tuttavia, non sempre queste manifestazioni vengono associate immediatamente a uno stato di malessere ma, proprio in virtù della nostra inclinazione ad attribuire agli animali stati mentali simili ai nostri, vengono più spesso spiegate in termini di “dispetti” dovuti a gelosia o rancore per qualche nostra mancanza. È solo di fronte a sintomi più seri e persistenti che ci preoccupiamo: mancanza di appetito, perdita di peso, difficoltà nei movimenti ci mettono in allerta e capiamo che il nostro gatto ha bisogno di aiuto. E, quando il veterinario ci spiega che il micio ha dolore, scatta il senso di colpa: “se solo lo avessi capito prima! Come ho potuto non accorgermene!”

Cosa fare? Inutile rimuginare sull’accaduto, piuttosto è bene imparare dall’esperienza e agire in modo da trasformare il senso di colpa in senso di responsabilità. Affidarsi quindi alle indicazioni del veterinario, per far sì che il gatto possa stare meglio e per capire come interpretarne correttamente il comportamento, così da riconoscere in maniera tempestiva eventuali segnali di dolore e malessere. I più curiosi trarranno certamente soddisfazione dallo studio delle basi dell’etologia felina, in un affascinante viaggio alla scoperta delle peculiarità del gatto e della relazione che instaura con noi umani. Un approfondimento sicuramente interessante è quello relativo al concento di emozioni “ecologicamente valide”, che invita a riflettere sulla probabilità che un animale possa provare un determinato stato emotivo, partendo da considerazioni relative al significato che quell’emozione avrebbe alla luce della storia evolutiva della specie di appartenenza.

Ma forse l’antica esortazione “conosci te stesso” resta il monito più importante: avere consapevolezza del funzionamento di noi esseri umani, per essere pronti a mettersi in discussione e a valutare ipotesi alternative laddove il nostro istinto ci portasse a spiegazioni poco compatibili con la natura dei nostri amici a quattro zampe.

 


Bibliografia:

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